30 ottobre 2010

Regalati un po' di indulgenza

Pomeriggio assolato, aria pungente che ti fa sentire viva. Prendo la macchina e, ordinando al lettore di sputare il cd che ascolto ossessivamente da una settimana (grazie, Matteo!), metto su Tiziano. Glielo, e me lo devo, perché mi sto portando dietro il suo libro, e se continuassi a leggere senza riascoltarlo, mi perderei delle sfumature delle sue parole, scritte e cantate. E non mi va.
Guido verso il mare, cosa che ho fatto più spesso nell'ultima settimana che in tutta l'estate.

Già mi sento bene.

Non scelgo il solito posto, però. Aria di cambiamenti, seppur piccoli. Ma da qualche parte bisogna iniziare.

Parcheggio e mi avvio verso il un lembo di "strada" sul mare: da un lato ci sono un paio di trabocchi, che se andate su wikipedia leggerete "antiche macchine da pesca", ma definirli così mi fa proprio ridere (mica si muovono, sono delle specie di casette in legno)!

Ci sono altre forme di vita umana (peccato!): un paio di famiglie, i bambini che mangiano il gelato, molti anziani con le schiene curve, qualche pescatore. E ci sono io, che mi aggiro goffamente con il libro e le chiavi della macchina in mano perché non ho preso neanche la borsa. Volevo solo leggere, e invece adesso ho voglia di passeggiare.
Anche perché realizzo che fermarmi a leggere in mezzo a quelle persone mi farebbe sentire ancor più in imbarazzo, così non mi rimane altro che camminare.

C'è una coppia di sportivi, moglie e marito suppongo, che fanno jogging, e in più parlano fitto fitto, sembrano litigare. Sono così presi dalla loro discussione e dalla attività ginnica... che mi viene da dirgli di stare un attimo zitti, rallentare e godersi la meraviglia che hanno intorno, così magari si rilassano anche un po'.
Mi sorpassano un'ultima volta, mi sono alle spalle e con loro lascio andare anche il nervosismo che mi hanno messo addosso.

Torno ad essere serena e a riempirmi gli occhi di azzurro.
Incrocio lo sguardo con un ragazzo, carino. Passeggia con una tipa, ma non sembrano molto intimi. Ridono, probabilmente sono solo amici. Ma forse perché... già.

Torno verso la macchina, e non mi ero accorta che, un po' nascosto, c'è un fotografo.

Ecco. Mi fermo a pensare che ho molto poco in comune con le persone che passeggiano, con quelle che vivono in modo attivo, che smuovono il culo per cambiare le cose.

Io no, faccio parte di quelli che aspettano e sono fermi: faccio parte dei pescatori che pazientemente attendono di sentir tirare la canna, sono il fotografo che attende la luce giusta, il momento perfetto.
L'attesa. Sempre l'attesa.

Ma c'è di buono che questa volta non mi sento tanto miserabile per questo. Anzi.

..che il consiglio di Tiziano che ho letto stamattina, sempre su una panchina al mare (ma nel solito posto), abbia sortito qualche effetto? :)

26 ottobre 2010

Piero e Lucia

Piero è un metalmeccanico. Lavora in fonderia.
Da trent’ anni si reca ogni giorno in fabbrica alle sei in punto di mattina. Esce che è tarda sera.
Otto ore non bastano. Sono necessari gli straordinari per far quadrare i conti a casa.
La figlia maggiore studia medicina. Vuol fare la ginecologa da grande. Gli affitti a Milano sono carissimi.
La più piccola è esclusa dal giro di amiche se non veste le griffe. Il mutuo incombe a fine mese, ma non si riesce a dire no ad un'adolescente dagli occhi lucidi.
Lucia, la moglie, dopo la prima gravidanza ha smesso di lavorare. Fa la casalinga e assiste nonna Giovanna che è molto anziana e ha bisogno di cure.

Piero è un uomo all'antica.
Lo conoscono tutti in fabbrica: un insuperabile lavoratore. Sempre disponibile, non ti direbbe no neanche se gli chiedessi un cambio-turno il giorno di Natale.
Il peso di una vita di sacrifici segna profonde rughe. Leva il sorriso e irrobustisce le spalle. Quelle di Piero, sono spalle massicce.

Piero è un uomo d'un pezzo.
Un padre di famiglia come tutti ce lo immagineremmo.
E non ha il benché mimino dubbio che la sua vita sia quella.
Senza mai una vacanza, senza mai un plauso a lavoro, ma con una famiglia.
Qualche volta la sera, Piero esce da lavoro ma non fa subito ritorno a casa.
Compra pizze da asporto per cena prima di rientrare.
Prima però si ferma al tabacchi. Prende il suo solito pacco di sigarette.
Piero ha un segreto.
Scarta l'involucro, prende una cicca, la mette in bocca. L'accende.
Il telefono dà segnale libero mentre tira la prima boccata di fumo, poi dall'altro capo qualcuno risponde.

- "Pronto."
- "Roberto, sono Piero, sei libero stasera?"
-“Ho un cliente tra un’ora, sbrigati!”
- "Sarò a casa tua tra... 15 minuti”.

Lucia è una ragioniera. I suoi genitori ci tenevano che prendesse almeno il diploma.
Portava i conti in una ditta di materiali edili, fino a che non è rimasta incinta.
Piero è un uomo d’onore, non ci ha pensato due volte a sposarla. Lei ha imparato a conoscerlo e ad amarlo negli anni, tanto che se tornasse indietro lo sposerebbe di nuovo.
Ecco, sì, magari farebbe solo le cose con più calma, per godersi un po’ più la giovinezza.
Ma poi sorride di questo pensiero, e po’ se ne vergogna, ha una famiglia che le riempie le giornate, due figlie splendide e un marito presente. Non potrebbe chiedere di più.
La madre la riporta alle sue faccende, la chiama per farle accendere la tv, “che almeno qualcuno mi faccia compagnia in questa casa, cazzo”.
Chissà perché la vecchiaia rende così scorbutici, pensa Lucia.

Lucia da troppo tempo si è accorta che qualcosa, nel suo matrimonio, non va.
Troppi silenzi, troppe omissioni.
Piero che fa tardi sempre più spesso, il telefono staccato, il suo nervosismo mentre poi si sveste, quando butta i vestiti sul fondo del cesto dei panni sporchi e corre sotto la doccia. I suoi occhi evasivi.
E non la bacia perché dice di essere sporco. Ma l'acqua non laverà via il suo senso di colpa, neanche stanotte.

Lucia sa che qualcosa non va.
Quello che non sa è come chiedere. Perché non può chiedere. Che ne sarebbe dei loro 27 anni insieme?
Che ne sarebbe di lei?
Lucia sa che potrebbe annusare i suoi vestiti, alla ricerca di un profumo che non è il suo.
Potrebbe guardare nel telefono, e cercare un numero che non conosce. Potrebbe chiamare, e ascoltare rispondere la voce di un uomo.
Ma non lo fa. Perciò non lo fa. Non le serve avere conferme, non le serve avere certezze. Quello che vuole è che la sua vita non cambi, che i suoi affetti non si stravolgano. Non vuole che il suo castello di sabbia si sgretoli, così.

Lucia non può far altro che tacere, e assecondare, in silenzio, il segreto del marito.
In fondo è sempre stato un uomo buono, un lavoratore instancabile. Non ha mai fatto mancare nulla, a lei e alle figlie, annullandosi per loro.
Ci sta che un uomo in una vita di sacrifici abbia qualche momento di "svago", qualche momento per lui.
E poi potrebbe essere tutto frutto della sua mente, gliel'hanno sempre detto le sue figlie, con il loro gergo giovanile, che si "fa sempre troppi trip". Sì, è così, che vai a pensare.

E allora continua a preparargli la cena, a stirargli le camicie. Continua a svegliarsi, di notte, per coprirlo, perchè lui le lascia la maggior parte della coperta, rimanendo solo col lenzuolo: lei gliela dà vinta, così lui è contento. Tanto rimedia poi. Non si riaddormenta subito, ma continua a guardarlo dormire per un po', in silenzio, mentre ripensa a come lui le era stato vicino quando si era dovuta operare al seno. Aveva vegliato su di lei, non lasciandola mai sola.
Continua a massaggiargli le mani indurite con un po' di crema, cosa che lui fa finta di rifiutare perché "è una cosa da femmine", ma in cuor suo Piero le è grato di quel gesto. Le è grato del suo prendersi cura di lui. Le è grato per le sue non-domande.

Quelle mani che stanotte stringono un altro corpo, perché Piero non è tornato a casa.
Piero che cerca se stesso nel letto di Roberto.
Lucia che, accarezzando il suo cuscino, cerca Piero nel loro.


(scritto a quattro mani con 88 tasti, che ringrazio)

23 ottobre 2010

E svegliarsi la mattina...

..con il sorriso sulle labbra e una canzone nella testa. Nel tepore del letto abbandonarsi al ricordo del sogno appena fatto.
Proseguire su quella scia e richiamare alla memoria piccoli particolari che abbiamo vissuto insieme, le tue partite di calcio nel corridoio delle elementari, le confidenze, il tuo disegno sul mio diario segreto, la tua ingenuità.
Il tuo buon cuore.
Gli occhiali che portavi alla cena di classe di qualche anno fa. Non te l'ho detto ma ti stavano bene, sai?
Quella sera non ti ho neanche detto che ti ringraziavo, in silenzio, per aver fatto il primo passo e esserti avvicinato tu.
Strano avere di fronte un uomo e guardare il bambino. L'imbarazzo che prende il posto che una volta era della spontaneità, poche domande e molti sorrisi. Chissà a quale aneddoto stai ripensando.
Ma adesso dimmi com'è andata? Com'è stato il viaggio di una vita lì con te?

Ci siamo persi, ma ogni tanto, di notte, torniamo ad essere quei due bambini. Era un po' che non ti sognavo, chissà perché proprio stanotte.
Non c'era niente intorno, solo io e te.
E il nostro abbraccio.


17 ottobre 2010

Piano B

Domattina farò una telefonata. Proferirà il mio futuro.
Digiterò le cifre, mi accerterò di essere in linea e aspetterò ascoltando il mio respiro perso nel tuuu tuuu del telefono.
Spererò che quello per cui mi sono impegnata si avveri. Adesso.

Tre giorni fa mi sono fatta una proposta.
Si dovrebbe dire “una promessa”, ma se la chiamo così poi non la mantengo.

Domattina farò una telefonata. Proferirà il mio futuro.
Digiterò le cifre, mi accerterò di essere in linea e aspetterò ascoltando il mio respiro perso nel tuuu tuuu del telefono.
Spererò che quello per cui mi sono impegnata non si avveri. Non adesso.

Tre giorni fa mi sono fatta una proposta.
Si dovrebbe chiamare "piano B", ma se lo chiamo così poi non lo metto in atto.

Domattina farò una telefonata. Proferirà il mio futuro.
Digiterò le cifre, mi accerterò di essere in linea e aspetterò ascoltando il mio respiro perso nel tuuu tuuu del telefono.
E non saprò che sperare.

14 ottobre 2010

"Dove sei adesso?", mi chiede.

Sono nelle note di Battisti.
Nella pioggia prima che cada.
In un’inquadratura di Ozpetek.
Nella linea sottile tra dormire e sognare.
Negli occhiali scuri di Mina.
Nel rovescio della medaglia.
Nel libro che profuma di cannella.
In uno sguardo che sai leggere.
Nel bucato steso ad asciugare.
Nel sottofondo delle canzoni di Tiziano Ferro.
Nell’istinto di un neonato.
Nei Fa9.
Nella passione che mosse Freud.
In un carcere iraniano.
Nelle promesse di un matrimonio.
Nella goccia del lavandino che perde.
In una stanza quasi rosa.
Sulla nave di Novecento.
Nella crostata di nonna.
Nel vento che pettina Anna Merini.
Nella barba incolta di quel quarantenne.
Nelle poesie di Montale, e di Leopardi.
Nella malinconia della sera.
In un’equazione irresolubile.
Nella valigia di mia sorella.
In “Ho perso le parole” di Ligabue.
Tra le briciole sulla tovaglia.
Nella “favola bella che ieri m’illuse, che oggi t’illude, o Ermione”.
Tra le ciglia di un bambino.
In un messaggio non inviato.
In un negozio di antiquariato.

Sul ponte, con l’elastico, che guardo in giù. E non so se buttarmi o no.
Mentre mi ripeto che La paura non esiste.

13 ottobre 2010

Che porco giuda potrei essere io qualche anno fa

Escono da un portone.
Lui, i lobi delle orecchie allargati, jeans scuri oversize e una t-shirt con una scritta gialla, il nome di qualche gruppo rock più o meno famoso. Sta per perdere le scarpe, tenute con i lacci così larghi. Occhi azzurri, limpidi, che si vedono fin da qui. Lo sguardo timido, tenuto basso per difendersi dal mondo.
Lei è luminosa. È proprio vero. La matita nera all’orientale, che le incornicia gli occhi scuri. I capelli rasta, tenuti insieme da una molletta consumata. Bracciali etnici, una maglia larga, leggins e ballerine. Deve stare comoda, manca poco.
Lo guarda un po’ perplessa, ma sorride. Gli sorride per quel suo gesto, impacciato e tenero, che poco si addice ai loro anni, al loro abbigliamento.
Dev’essere un musicista. Un chitarrista, o un bassista, per la precisione. Tiene le dita vicine, pollice e indice uniti come se stesse tenendo un plettro. Forse per lui è un gesto naturale, lo fa sentire al sicuro.
Lei sembra più estroversa. Gli dice qualcosa, prova a scherzare. Forse vuole metterlo in imbarazzo. Le riesce, lui la guarda e non dice niente, ma è divertito. Si studiano, si scrutano, stringendo un po’ gli occhi. Complici.
E ridono.
Le porge un braccio per scendere uno scalino un po’ troppo alto. Lei si lascia aiutare.
Con una mano stringe quella di lui.
L’altra, protettiva, sulla pancia.

11 ottobre 2010

Riverberi

Mi parla, e io non sento cosa dice.
Non voglio sentire.
E’ arrabbiato con me perché non lo ascolto.
Mi fa tenerezza. Ha ragione, è tanto tempo che ho smesso di considerarlo.
Mi sorride un po’ imbarazzato, e sembra non capire.
No, non può capire.
Ma la colpa è mia.
Vorrebbe che ci volessi più bene.
Dillo, mi sussurra. Dillo.

Ma lui mi parla, e io non sento cosa dice.

4 ottobre 2010

Cose da fare:

prendere un cane;
iniziare a fumare.


http://civuoleuntitoloadatto.blogspot.com/2010/09/quanto-dura-unamicizia.html

Going to.

Ridere, ridere, ridere.
Le risate trattenute, le risate condivise, le risate che esplodono.
Le risate di cuore. Quelle che poi piangi, e ti fanno male la pancia e le guance.
Amo le risate delle persone care, dei miei amici.

Amo sentirla ridere, guardare il viso che le si illumina e gli occhi che risplendono.

Amo sentirlo ridere, al telefono, mentre va incontro alla vita.

2 ottobre 2010

Sopravvivenze.

Il pesce grande mangia il pesce piccolo. Il pesce grande mangia il pesce . Il pesce grande mangia il . Il pesce grande mangia . Il pesce grande . Il pesce . Il .   .

Beh,

forse Paul aveva ragione.