25 luglio 2010

Sui treni, per salvarsi, leggevano.

[...] Nel senso che forse, sempre, e per tutti, altro non è mai, leggere, che fissare un punto per non essere sedotti, e rovinati, dall'incontrollabile strisciare via del mondo. Non si leggerebbe nulla, se non fose per paura. O per rimandare la tentazione di un rovinoso desiderio a cui, si sa, non si saprà resistere. Si legge per non alzare lo sguardo verso il finestrino, questa è la verità. Un libro aperto è sempre la certificazione della presenza di un vile - gli occhi inchiodati su quelle righe per non farsi rubare lo sguardo dal bruciore del mondo - le parole che a una a una stringono il fragore del mondo in un imbuto opaco fino a farlo colare in formine di vetro che chiamiamo libri - la più raffinata delle ritirate, questa è la verità. Una sporcheria. Però: dolcissima. Questo è importante, e bisognerà ricordarlo, e tramandarlo, di volta un volta, da malato a malato, come un segreto, il segreto, che non sfumi mai nella rinuncia di nessuno o nella forza di nessuno, che sopravviva sempre nella memoria di almeno un'anima sfinita, e lì suoni come un verdetto capace di far tacere chicchessia: leggere è una sporcheria dolcissima. Chi può capire qualcosa della dolcezza se non ha mai chinato la propria vita, tutta quanta, sulla prima riga della prima pagina di un libro? No, quella è la sola e la più dolce custodia di ogni paura - un libro che inizia. Così che, insieme a migliaia di altre cose, cappelli, animali, ambizioni, valigie, soldi, lettere d'amore, malattie, bottiglie, armi, ricordi, stivali, occhiali, pellicce, risate, sguardi, tristezze, famiglie, giocattoli, sottovesti, specchi, odori, lacrime, guanti, rumori - insieme a quelle migliaia di cose che già sollevavano da terra e lanciavano a velocità prodigiose, quei treni che rigavano avanti e indietro il monfo come ferite fumanti si portavano dentro anche la solitudine impagante di quel segreto: l'arte di leggere. Tutti quei libri aperti, infiniti libri, come finestrelle aperte dentro il mondo, seminate su un proiettile che offriva allo sguardo, solo si avesse avuto il coraggio di alzarlo, lo sfavillante spettacolo del mondo fuori. Il dentro del mondo e il mondo di fuori. Il dentro del mondo e il mondo di fuori. Il dentro del mondo e il mondo di fuori. Il dentro del mondo e il mondo di fuori. Alla fine si finisce così, che in un modo o nell'altro ancora una volta, si sceglie il dentro del mondo, mentre tutt'intorno ti sferraglia la tentazione di farla finita una buona volta e di rischiare a vederlo, questo mondo di fuori, cosa mai sarà, possibile che sia davvero così pauroso, possibile che non se ne andrà mai questa vigliacca paura di morire, di morire, morire, morire, morire, morire, morire? [A.Baricco, Castelli di rabbia]

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